Barca a vela, Oceano indiano, Robert Redford.
Container, collisione, naufragio.
Zattera di salvataggio, solitudine, paura.
Inizia così la storia di una battaglia, quella tra il destino di una morte vicina e la voglia di vivere, di resistere ad ogni costo nonostante le grandi delusioni, la testa che ti abbandona e le tutte difficoltà del caso.
È un film, ovviamente, si chiama All is lost, ed è la grande metafora della lotta tra l’uomo e la natura.
Senza dialoghi, due ore di niente. Solo un “dio dio dio, cazzo caaaaaaazzoooooo” a un certo punto perché è anche giusto che quando sei vicino alla morte mantieni un contegno e un doveroso silenzio.
Pensavo a quanto possa essere importante una tanica di plastica quando non hai nulla, un bicchiere d’acqua quando la sete ti consuma, un biscotto rancido quando la fame ti divora.
E pensavo a un articolo che lessi un milione di anni fa, quando Christiana F. la quattordicenne tossica protagonista del libro prima e del film poi “noi i ragazzi dello zoo di Berlino” tentò il suicidio e nello stesso giorno una sua coetanea morì nel carrello di un aereo che dall’Africa veniva in Europa, alla ricerca di una vita con meno stenti e un po’ più di dignità. Di speranza.
Quell’articolo raccontava che valore diverso può avere una vita.
L’altro giorno, una persona a me cara mi ha detto “un giorno la faccio finita perché così…” e manco mi ricordo le motivazioni. Stavo per risponderle “Scegli una maniera poco dolorosa, perché prima ti seppellisco e poi ti seguo allo stesso modo”, ma sarebbe stata solo una stupida frase ad effetto.
In questa storia io sono Robert Redford, quello che lotta per la vita anche quando tutto sembra perduto.